Un dovere morale schierarsi con chi soffre e con chi si batte per la libertà del proprio paese, ma è anche un dovere analizzare i fatti senza retorica nè pregiudizi

di Velia Iacovino 

E’ pericoloso leggere l’atroce scontro in atto tra Ucraina e Russia, che sta trascinando il mondo intero verso il baratro di una guerra globale, come una semplicistica contrapposizione tra bene e male, tra buoni e cattivi. E se è un dovere morale, un istinto del cuore schierarsi dalla parte di chi soffre, di chi è in fuga dalle bombe, di chi difende la propria libertà e la propria terra, bisogna comunque cercare di evitare di cadere nella trappola della facile retorica manichea, che in questo momento domina l’agenda setting occidentale e che rischia pericolosamente di offuscare e indebolire le armi della diplomazia. E in quest’ottica è importante rileggere la cronaca degli ultimi quattro mesi del 2021 e soffermarsi su alcuni fatti, troppo presto archiviati, nelle cui pieghe si annidano invece le reali ragioni che hanno portato a questo conflitto, che si sarebbe sicuramente potuto evitare ma che ora difficilmente potrà essere fermato. Ecco alcuni momenti, circostanze ed eventi da segnare in rosso nel calendario della storia che hanno preceduto lo scoppio di questa guerra.

La questione della Crimea

In primis c’e’ la questione della Crimea, che l’Ucraina ha perduto otto anni fa e che rivendica. Un obiettivo per il quale l’estate scorsa Kiev ha lanciato un’iniziativa internazionale e convocato un meeting che si è tenuto il 23 agosto e che ha visto la partecipazione dei rappresentanti dei governi di 46 paesi, tra cui l’Italia. L’evento ha suscitato la prima forte reazione di Mosca che sostiene invece da sempre, unica voce sulla scena internazionale, la piena legittimità del referendum con cui la Crimea il 16 marzo 2014 proclamò la propria indipendenza, scegliendo di entrare a far parte della Federazione Russa. In quella occasione il ministero della Giustizia ucraino provò anche a  bloccare la banca dati con il registro degli elettori della regione, per cui la duma locale autorizzò l’utilizzazione degli elenchi di quanti avevano partecipato alle parlamentari del 2012. A vegliare sul corretto svolgimento della consultazione 70 osservatori internazionali provenienti da 23 paesi; di questi, 54 arrivati da nazioni della Ue, tra cui membri del parlamento europeo e dei parlamenti nazionali. Furono formate 192 commissioni ripartite in 27 comitati elettorali territoriali. L’affluenza al referendum fu di 1 548 197 votanti su 1 839 466 aventi diritto, pari all’84,2%. Il quorum, fissato al 50%, era stato dunque superato. Secondo i dati ufficiali diffusi il 17 marzo,  il 96,6% degli elettori aveva votato sì all’indipendenza dall’Ucraina e all’ingresso nella Federazione russa . Solo il 2,5% aveva scelto di rimanere nell’Ucraina con una maggiore autonomia. Migliaia di persone scesero nelle strade di Sinferopoli e di Sebastopoli, per festeggiare l’esito del voto. Ma la Casa Bianca – all’epoca era presidente Barack Obama e il suo vice era Joe Biden- pochi minuti dopo  la diffusione dei dati, respinse il risultato della consultazione, bollandolo come illegittimo, perchè violava gli accordi del Memorandum on Security Assurances, firmato a Budapest da Federazione Russa, Stati Uniti e Regno Unito, il 5 dicembre 1994, ma mai ratificato, che prevedeva la salvaguardia dell’ integrità territoriale di Ucraina, Bielorussia e Kazakistan. Il 27 marzo 2014, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò, con 100 voti a favore, 11 contrari e 58 astenuti, la risoluzione 68/262 in cui si chiedeva agli Stati membri di non riconoscere i cambiamenti avvenuti nello status della Crimea.

Zelensky, la Casa Bianca, la Nato

Altro elemento chiave nella escalation della tensione, mai sopita, tra Ucraina e Russia, l’irrigidimento delle relazioni tra Washington e il Cremlino dopo la fine dell’era Donald Trump. E’ apparso chiaro fin dai primi passi della nuova amministrazione che i rapporti tra le due potenze non sarebbero stati facili. Biden, che già durante la sua campagna elettorale aveva promesso di aumentare assistenza e supporto militare all’Ucraina e di consolidare l’alleanza con Kiev, preparandone l’ingresso nella Nato, non ha mai nascosto la sua più profonda disistima nei confronti di Wladimir Putin, che, non meno di un anno fa,  non ha esitato a definire “un assassino”, dopo aver scoperto da un rapporto dell’intelligence che aveva cercato di interferire nella sua corsa alla Casa Bianca. Parole che non avevano lasciato indifferente Mosca e il suo leader. Grazie al Covid comunque la situazione rientrò. E anche il New Start, il trattato per la riduzione delle armi nucleari, firmato da Stati Uniti e Russia a Praga l’8 aprile del 2010, in scadenza in quel momento venne esteso senza intoppi per altri cinque anni. A riaccendere il fuoco, contribuì mesi dopo la visita effettuata a Washington il primo settembre da Zelensky.  Un momento tanto atteso dall’ex comico, eletto nel 2019 presidente, bisognoso piu’ che mai in quei giorni di rilanciare la propria immagine in crisi nei sondaggi e preoccupato per gli effetti della pandemia sull’economia e non solo. Quell’incontro fu determinante. Kiev ottenne ciò che voleva e in primo luogo che gli Stati Uniti mantenessero la promessa di un allargamento del Patto Atlantico nella cintura dell’est europeo ex sovietico e di nuovi aiuti militari: l’amministrazione statunitense varò  nell’immediato un nuovo pacchetto da 60 milioni di dollari, che includeva anche la consegna all’Ucraina dei sistemi missilistici Javelin. Nel 2021, come ufficialmente dichiarato dal ministro degli Esteri Dmytro Kuleba, il volume di assistenza finanziaria che Kiev ha ricevuto dagli Stati Uniti è stato di oltre 130 milioni di dollari.

Pandora Papers

Ma l’alleanza tra i due paesi passa anche per altre vie. Washington ha sostenuto con forza la leadership di Zelensky arrivando pure a far ricorso al sistema delle sanzioni messe in atto contro i suoi avversari politici interni. E’ accaduto quando il presidente ucraino è finito insieme ad altri leader mondiali al centro dell’inchiesta, condotta dall’ International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), denominata Pandora Papers alla quale hanno collaborato giornalisti di 117 paesi, accusato di far parte di una vasta rete di società offshore con sede nelle Isole Vergini britanniche, nel Belize e a Cipro insieme con amici e partner operativi nel settore televisivo nazionale. Proprio lui che durante la sua campagna elettorale aveva promesso di ripulire l’Ucraina dall’influenza degli oligarchi. Uno scandalo che ha fatto fortemente vacillare  e crollare Zelensky nei sondaggi, ma la cui memoria è stata spazzata via dai venti di guerra, cominciati a soffiare sul paese e dalle restrizioni finanziarie imposte dal Dipartimento del Tesoro americano a Oleksandr Tupytsky, presidente della Corte costituzionale dell’Ucraina, ad Andriy Portnov, ex alto rango del governo ucraino ed all’ ex presidente Viktor Yanukovich, accusati di esercitare la loro influenza sulle decisioni dei tribunali ucraini e di minare gli sforzi di riforma del paese.

Il gasdotto Nord Stream 2

biden-g7-alleanza-atlanticaE non è tutto. A legare a doppio filo Zelensky a Biden c’è stato poi il comune interesse a far saltare il progetto del gasdotto Nord Stream 2, che avrebbe dovuto raddoppiare le forniture di gas naturale dalla Russia alla Germania. Un progetto voluto da Angela Merkel, ma mai gradito al nuovo governo, e al quale Berlino ha definitivamente rinunciato, dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Lungo 1.200 chilometri, passa sotto il mare e dalla costa baltica russa arriva alla Germania nord-orientale. E’ costato 12 miliardi di dollari e segue lo stesso percorso del Nord Stream 1, completato più di dieci anni fa. Come il suo gemello, Nord Stream 2 avrebbe dovuto portare  altri 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla Russia all’Europa a un prezzo relativamente economico. Vi partecipa a maggioranza il gruppo russo Gazprom con 10 miliardi di euro e nell’azionariato della società che lo gestisce ci sono anche le compagnie tedesche Uniper e Wintershall, la francese Engie, l’anglo-olandese Shell e l’austriaca Omv. Particolare non trascurabile a presiedere il comitato degli azionisti è l’ex cancelliere tedesco  Gerhard Schroeder, che in questi giorni ha proposto di essere ammesso al tavolo dei negoziatori impegnati a trovare una soluzione alla guerra. Il gasdotto è stato completato a settembre 2021, ma le autorità tedesche a novembre hanno sospeso il processo di approvazione. Il Nord Stream 2 non è mai piaciuto a Zelensky perché avrebbe aggirato l’Ucraina, togliendo al paese circa un miliardo di euro all’anno di introiti provenienti dalle tariffe di transito, e trasformandosi al contempo, almeno secondo il presidente ucraino, in una potenziale arma di ricatto della Russia nei confronti dell’Europa puntata contro Kiev. Non la pensava così la Merkel, che ha sempre ignorato le richieste di abbandonare il progetto nonostante le non facili relazioni con il Cremlino. Per Biden invece il nuovo gasdotto europeo, oggi dichiarato “morto”,  è sempre stato qualcosa di inaccettabile perché  avrebbe irrimediabilmente rafforzato i legami tra Germania e Russia, trasformando la loro alleanza energetica in una pericolosa alleanza strategica. Gli Stati Uniti hanno ottenuto il tramonto del progetto. Non solo. Adesso con la guerra in atto e la rinuncia definitiva della Germania al gasdotto,  il presidente americano dalla Casa Bianca, indossando una cravatta con i colori dell’Ucraina, ha annunciato anche, oltre le sanzioni imposte agli oligarchi, l’ordine di divieto dell’import negli Stati Uniti di petrolio,  gas e carbone russi e della partecipazione di aziende americane al settore energetico del Cremlino. Seguito in questo a ruota dal Regno Unito. Una mossa alla quale Mosca ha risposto a sua volta minacciando l’embargo del pompaggio del gasdotto che approvvigiona l’Europa, Italia compresa, la quale  dipende per il 40% dal gas russo.

Donbass

Non c’è solo la questione della Crimea. Kiev nel 2014 ha perduto anche altri pezzi importanti del suo territorio, come le regioni di Donetsk e Luhansk, che fanno parte del Donbass e che dopo un referendum autogestito e ritenuto illegale a livello internazionale, hanno proclamato la propria indipendenza (ottenendo il riconoscimento dell’Ossezia del Sud a sua volta rivendicata dalla Georgia) e solo un mese fa dalla Russia) dopo un sanguinoso scontro con le forze armate e di sicurezza ucraine, che nella primavera di otto anni fa per reprimere gli aneliti secessionisti lanciarono una operazione antiterroristica su vasta scala nell’obiettivo di riprendere il controllo dell’ area. Operazione alla quale parteciparono anche formazioni paramilitari rapidamente costituitesi con volontari appartenenti a partiti e movimenti di estrema destra, come i battaglioni “Donbass”, “Azov”, “Kharkiv” e “Aidar”, e il reparto formato dal movimento politico Pravyi Sektor (“settore destro”), gruppi tuttora attivi in Ucraina e che in queste ore sostengono Zelensky e si battono per l’ingresso di Kiev nella Nato. La Repubblica di Donestsk  si autodefinisce uno stato unitario democratico, di diritto e sociale. Il potere legislativo è affidato al Consiglio del Popolo, composto da 100 deputati. La costituzione riserva al presidente della Repubblica, che attualmente è Denis Pušilin,  la facoltà di guidare personalmente il governo o di nominare un premier. Analoga la forma di stato che si è data la Repubblica di Luhansk, la cui duma è costituita da 50 deputati e che ha alla guida Leonid Pasečnik. Ricchissimo di gas e di carbone, in particolare di antracite, oltre 10 milioni di tonnellate vengono estratte ogni anno, il Donbass è stato uno dei poli siderurgici piu’ importanti dell’Ucraina. A molti italiani la regione nota soprattutto per la sua squadra di calcio, lo Shakhtar Donetsk, che ha giocato in Champions League e che ha dallo scorso anno un allenatore italiano, Roberto De Zerbie.

I laboratori ucraini

C’è infine il mistero svelato dei laboratori ucraini, che sono stati oggetto nelle ultime settimane di fantasiose fake news. La Russia aveva infatti accusato, attraverso la speaker del ministero degli Esteri Maria Zakharova, gli Stati Uniti di portare avanti programmi di sviluppo di armi biologiche con Kiev all’interno di centri di ricerca segreti. Accusa rivolta a Washington anche dalla Cina, che nelle scorse ore ha sollecitato il monitoraggio multilaterale di queste strutture che si troverebbero anche in altri 30 paesi del mondo. Nel caso dell’Ucraina si tratterebbe, come è stato chiarito, di centri di ricerca, posseduti e finanziati dal governo di Kiev, nell’ambito di un trattato bilaterale firmato con gli Usa nel  2005 (noto come Cooperative Threat Reduction Program), avviato dal Dipartimento della Difesa americano nel 1991 dopo la caduta dell’Unione sovietica nell’obiettivo di ridurre “al minimo le potenziali minacce biologiche” e la minaccia delle armi di distruzione di massa e di modernizzare i laboratori statali nelle regioni di Odessa, Kharkiv, Leopoli, Kiev, Vinnycja, Kherson e Dnipro.

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